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GLI URAGANI NEL MEDITERRANEO (parte 1/2)

Ebbene sì, anche nel Mediterraneo possono formarsi uragani.

Lo sapevate? No? Bene, ora lo sapete.

Ma per ogni dettaglio partiamo con ordine, spiegando innanzitutto che cos’è un ciclone.

 

Cos’è un ciclone

Secondo wikipedia, un ciclone è una regione atmosferica in cui la pressione atmosferica è minore di quella delle regioni circostanti alla stessa altitudine (bassa pressione), tipicamente associata a cattivo tempo atmosferico (temporali, pioggia, vento).

Insomma il ciclone è una perturbazione atmosferica a cui, pertanto, sono associate condizioni di cattivo tempo.

I cicloni così definiti si dividono in due categorie: cicloni extratropicali e tropicali.

Le differenze tra queste due tipologie di cicloni sono sostanziali e riguardano, oltre agli esteriori aspetti  morfologici, anche i meccanismi fisici di formazione e sviluppo.

In questa prima parte dell’articolo analizzeremo i cicloni extratropicali e tropicali; la seconda parte dell’articolo, che pubblicheremo fra qualche giorno, si occuperà specificamente degli uragani in ambito mediterraneo.

 

Ciclone extratropicale

Senza entrare nei dettagli della teoria frontologica della scuola norvergese di Vilhelm Bjerknes, possiamo dire che i cicloni extratropicali si formano da oscillazioni di quella zona, detta fronte polare, che separa la fredda circolazione polare da quella calda subtropicale e tropicale, generando un minimo di pressione a cui sono collegati fronti caldi, freddi ed occlusi in rapido spostamento ed evoluzione sino al colmamento finale. La causa della loro formazione risiede, pertanto, nel rapido cambiamento (in orizzontale) di temperatura che si registra a pochi km di distanza, generata a sua volta dalla presenza ravvicinata di masse d’aria d’estrazione completamente differente (instabilità baroclina, alimentata dall’afflusso di aria fredda) ed interessano le zone temperate e sub-polari (quindi anche l’Italia), insomma le zone contermini a quel fronte polare le cui oscillazioni sono causa della formazione di queste strutture depressionarie.

Per sintetizzare: il ciclone extratropicale, detto in parole semplici, è la “classica” perturbazione con i suoi fronti blu (freddo), rosso (caldo) e viola (occluso), che vediamo disegnata giorno per giorno sulle cartine meteo che siamo abituati a consultare (vedi figura 1).

Figura 1

 

Ciclone tropicale

Formazione di un ciclone tropicale

Passiamo ora ai cicloni tropicali. Qui il discorso è totalmente differente.

Innanzitutto essi si formano solo a latitudini prossime all’equatore (tra i 10° e i 20° a nord e a sud d’esso) e presentano un aspetto ben distintivo se osservati da satellite: un occhio centrale sgombro da nubi, con bande di sistemi nuvolosi che si dipartono dell’occhio stesso, ruotando in senso antiorario (nel nostro emisfero) intorno allo stesso occhio (vedi fig. 2).

Figura 2 – uragano Flossie (11 agosto 2011) tratto dal seguente link

 

Anche il meccanismo di formazione è differente da quello dei cicloni extratropicali: l’input non è più il contrasto termico orizzontale fra masse d’aria differenti e quindi l’afflusso continuo di aria fredda dalle latitudini polari, bensì è fornito dal sole e dalle condizioni meteo precedenti la formazione del ciclone, che devono favorire l’intensa evaporazione di ampi specchi marini (come gli oceani). Evaporando, l’acqua, passa dallo stato liquido a quello gassoso (vapore acqueo) assorbendo una grande quantità di energia (calore “sensibile” fornito dal sole). Si genera quindi un flusso d’aria caldo e umido che sale verso l’alto. Salendo l’aria si espande e si raffredda, fino a che non raggiunge la saturazione condensando, cioè  ri-trasformandosi in gocce d’acqua liquida. Questo processo, però, libera quel calore che il vapore aveva originariamente assorbito dal sole, generando un nuovo  flusso di calore detto “latente”. Quindi l’aria si riscalda ancor di più e così facendo non fa altro che salire più intensamente, facendo quindi abbassare ancor di più la pressione; abbassamento che a sua volta aumenta la circolazione al suolo, generando venti più intensi che producono più evaporazione degli specchi marini e ri-alimentando il processo…con un feedback positivo.

Allo stadio maturo il ciclone tropicale si presenta così:

Figura 3 – Sezione di un uragano, tratto da wikipedia

 

quindi con aria che, al suolo, viene richiamata verso l’occhio (“eye“) e che, a causa dell’accelerazione di Coriolis, è forzata a ruotare in senso antiorario (nel nostro emisfero) formando una spirale convergente verso l’occhio stesso. Lontano da esso comunque, l’aria che sale si organizza in celle convettive sparse, le più intense delle quali si formano proprio a ridosso dell’occhio creando un vero muro di nuvole che delimita l’occhio stesso: tale muro è infatti chiamato “eyewall” nel quale, tra le altre cose, vi sono i venti al suolo più forti (il raggio interno dell’eyewall è detto “raggio dei venti più intensi“) e i flussi di aria verso l’alto più vigorosi, che quindi fanno crollare sempre di più la pressione, producendo (proprio nell’eyewall) le precipitazioni più intense.

L’aria che sale dall’eyewall, giunto al limite della troposfera, diverge in senso orario dall’occhio verso l’esterno creando un tappeto di alte nuvole (cirri).

Nell’occhio abbiamo invece aria che scende (subsidenza), che quindi inibisce la formazione delle nuvole (al più solo stratocumuli e strati…ecco perchè si forma l’occhio che si vede dal satellite “nero”, cioè libero da nuvole) e delle precipitazioni e che, inoltre, si riscalda sempre di più a tutte le quote. Proprio questo è uno dei più importanti segni distintivi di un ciclone tropicale: esso presenta un cuore caldo, cioè la colonna d’aria dell’occhio (tranne negli strati più bassi a contatto col mare) è più calda anche di 6°/8° rispetto alla vicina aria circostante l’occhio.

 

Da ciò che abbiamo detto, in sostanza, il ciclone tropicale per formarsi necessita di alcuni fattori favorevoli:

1) una situazione meteorologica preesistente che intensifichi l’evaporazione del mare (basse pressioni, fronti freddi, etc…);

2) un mare molto caldo (non solo in superficie ma sino almeno a 50 m di profondità) rispetto all’aria più fredda che deve scorrere in quota (siccome nelle zone tropicali l’aria “fredda” che scorre in quota non è mai veramente fredda, il mare, per poter innescare la formazione di un ciclone tropicale, deve avere una temperatura maggiore di 26°);

3) un mare molto ampio su cui possano agire indisturbati i meccanismi di formazione descritti prima;

4) assenza di shear di venti, cioè i venti devono mantenere più o meno la stessa direzione salendo di quota, altrimenti potrebbero “spezzare” la formazione della struttura verticale del ciclone che abbiamo visto in precedenza. Quindi una situazione completamente differente da quella che dà origine alle cosiddette supercelle;

5) latitudine superiore agli 8°/9° in modo che l’accelerazione di Coriolis raggiunga un valore minimo capace di imprimere la rotazione antioraria ai venti che convergono al suolo verso il minimo depressionario.

 

Al termine del paragrafo vogliamo infine, sintetizzare i segni distintivi di un ciclone tropicale (i primi due punti sono stati già esaminati, gli altri si introducono ora):

1) dalle immagini satellitari deve emergere la struttura tipica ad “occhio” con bande nuvolose che scorrono in senso antiorario (nel nostro emisfero) centrate nell’occhio stesso (figura 2);

2) a tutti i livelli troposferici (cioè 850 hPa, 700 hPa, 500 hPa, etc… escludendo il suolo), l’occhio deve risultare più caldo delle zone circostanti l’occhio stesso;

3) la struttura deve essere “barotropica“: cioè, per ciascun livello considerabile (850 hPa, 700 hPa, 500 hPa, etc…) le isoterme devono essere parallele alle isoipse: quindi il ciclone tropicale non viene alimentato dalle avvezioni di aria fredda come i cicloni extratropicali, bensì è un sistema chiuso, non alimentato che si autorigenera da sè grazie ai meccanismi basati sui flussi di calore sensibile e latente descritti prima;

4) sempre per ciascun livello considerabile (850 hPa, 700 hPa, 500 hPa, etc…) i minimi devono essere posizionati (planimetricamente) più o meno nello stesso posto;

 

Si noti che, poichè i cicloni tropicali sono strutture chiuse che si alimentano “solo” dei flussi di calore originati, in ultima istanza, dal sole ma che necessitano di ampie superfici marine per potersi reiterare, una volta raggiunto il suolo (landfall) con il centro della loro circolazione tali cicloni perdono intensità molto rapidamente…ma prima di far ciò possono scatenare tutta la loro intatta energia sulle aree costiere e del primo entroterra causando i maggiori danni.

 

Intensità dei cicloni tropicali

L’intensità di un ciclone tropicale può misurarsi in molti modi. Uno dei più noti è quello che si basa sull’intensità dei venti raggiunti: tali venti devono essere misurati all’altezza di 10 m dal suolo e pari alla media dei venti registrati in 1 minuto o 10 minuti (la scelta dell’intervallo varia fra i centri di ricerca e a seconda dei diversi bacini su cui si sviluppa il ciclone stesso). Un altro metodo di classificazione è la cosiddetta tecnica Dvorak basata sull’esame di immagini satellitari al visibile ed all’infrarosso e fondata su semplici concetti: 1) l’aspetto assunto dai cicloni al satellite è legato alla loro intensità; 2) la differenza di temperatura tra il top delle nuvole e l’occhio del ciclone è un indice attendibile della sua intensità. Sulla base di una particolare procedura, pertanto, la tecnica Dvorak attribuisce al ciclone un numero (Tropical Number, detto T-number) che varia da T1 (ciclone molto debole) a T8 (ciclone molto intenso).

Ecco quindi, come possono classificarsi i cicloni tropicali, in base alla loro intensità misurata con tecniche differenti:

depressioni tropicali, (che però non hanno un vero occhio e non hanno la forma spiraliforme tipica delle tempeste più violente), in cui i venti non superano i 62 km/h e che presentano pressioni minime tra 1012 e 1006 hPa; numeri di Dvorak: T1 – T1.5 – T2;

tempeste tropicali, con venti compresi tra 63 km/h e 118 km/h e che presentano pressioni minime tra 994 e 1005 hPa; numeri di Dvorak: T2.5 – T3 – T3.5;

cicloni tropicali intensi, che assumono nomi differenti a seconda della zona del mondo in cui si verificano: URAGANI (Atlantico e Pacifico nord-orientale), TIFONE (Pacifico nord centrale e occidentale), CICLONE (Pacifico sud e Oceano indiano), con venti superiori o uguali a 119 km/h e pressioni minime inferiori a 993 hPa.

Gli uragani (così si chiamano da noi), infine, si classificano, sempre in base all’intensità del vento, sulla base della scala Saffir-Simpson, in 5 categorie:

Categoria 1: venti compresi tra 119 e 153 km/h; numeri di Dvorak: T4 – T4.5

Categoria 2: venti compresi tra 154 e 177 km/h; numeri di Dvorak: T4.5 – T5

Categoria 3: venti compresi tra 178 e 208 km/h; numeri di Dvorak: T5 – T5.5

Categoria 4: venti compresi tra 209 e 251 km/h; numeri di Dvorak: T6 – T6.5

Categoria 5: venti maggiori di 251 km/h; numeri di Dvorak: T7 – T7.5 – T8

 

Nella prossima parte dell’articolo esamineremo più da vicino gli uragani che si generano nel mediterraneo: clicca qui per leggere la seconda parte.

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